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I paradossi accendono l'immaginazione

 

Cosa immaginerebbe il testimone di una scena in cui una persona dà uno “schiaffo” alla sua accompagnatrice pronunciandole, contemporaneamente, la parola “ti voglio bene”?

 

L’azione (in ogni caso inammissibile), connessa a una frase oggettivamente incongruente (supposto che dal tono della voce non si possa ricavare alcuna indicazione di ausilio per una valutazione), prefigurerebbe per l’osservatore uno scenario spiazzante, dai molteplici e problematici risvolti.

La circostanza assumerebbe una connotazione, talmente pregnante e assurda, da sollecitare con urgenza un’interpretazione finalizzata a trovare una giustificazione logica di quel gesto palesemente inappropriato e sconsiderato.

 

Quindi si può ipotizzare che un’osservazione fronteggiata da parole incoerenti sconvolga e disorienti la percezione, moltiplichi e complichi la comprensione. In altre parole i paradossi accendono l’immaginazione.

Ciò premesso, penso che il titolo che associo ai miei quadri, privo volutamente di carattere didascalico, costituisca un paradosso cioè ricontestualizzi gli stessi, cioè li immerga in un nuovo spazio pluridimensionale le cui coordinate sono determinate dalle molteplici implicazioni di un pensiero.

Parole destinate a consegnare alle immagini un significato che va al di là del loro uso abituale, consentendo di scoprire aspetti insospettati.

Una sperimentazione nella quale Immagini non conclusive, cioè aperte - seppur contenenti frammenti di realtà e gerarchie di figure - all’interno di un dialogo con le parole, offrono vari spunti per ricavare un senso.

Concetti impiegati come strumenti per tessere una maglia di attinenze e non per dare un nome alle cose, ma per far emergere residui inesplorati, zone opache, ambiguità e attraenti soluzioni.

Questo dovrebbe far avvertire l’opera non già come una rappresentazione, ma come un’allusione, una lateralità, un’ombra della vita per stimolare l’attenzione e la memoria.

E ancora, l’opera come un sorta di organismo, ovvero un’entità organizzata capace di trovare nutrimento da ciò che la circonda per sopravvivere e trasformarsi.

Un luogo dove la linearità si spezza per effetto del nodo, dando spazio al groviglio, alla rottura, all’imperfezione e alla precarietà.

Una proposta che non ha la valenza di un racconto ma che si presenta come un grido, un gesto scomodo, una strappo.

Un artificio che presentando forme geometriche complesse, quindi non convenzionali, pretende la collaborazione dello spettatore/lettore, a cui vengono sussurrate domande per “obbligarlo” a riflettere.

Forme, non addomesticate da perizia tecnica e abilità accademica, rudi, enigmatiche, assetate di giustizia e, a volte, anche di vendetta, animate da una vibrazione polisemica, realizzate rifiutando caparbiamente riferimenti poetici, simbolici, onirici e magici.

Un’ostentazione di matericità intensa, torbida, un mescolarsi di forza e vitalità con una premonizione al dramma, un’esibizione di sensualità con una ispirazione inquieta.

 

Un linguaggio costruito con una sintassi che non è né ingenua né intuitiva, in cui una razionalità appassionata è posta al servizio di una visione fortemente umana per determinare nell’osservatore un impulso immaginativo che si opponga all’arida omologazione del consumo e del possesso che rende marginale slancio e pensiero critico e spegne ogni possibilità di futuro.