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L'origine della bellezza è nella comprensione

 

Tutte le cose a “ben guardare” hanno un significato polivalente (niente è unico, tutto è complesso) ma la nostra mente tende a sottrarsi all’angoscia e alla paura dell’inatteso “riconoscendo” solo quei significati che garantiscono la prevedibilità dei comportamenti. Tendiamo, cioè, a considerare realtà tutto ciò il cui accadere non ci sorprende perché ce lo attendiamo. Quindi la realtà non è una verità ma la conseguenza dell’istinto e dell’abitudine della nostra mente.
Il vero è solo fantasia.
Ci sentiamo “tranquilli” solo quando riusciamo a leggere ciò che accade nel mondo in modo univoco, in modo calcolabile e quindi prevedibile.

L’arte, invece, non si è mai sottratta al disagio, al dramma e alla complessità, anzi ne ha fatto il terreno della sua indagine, riuscendo, a volte, a trasformare l’improbabile in probabile, penetrando una realtà ricca di doppi fondi, di simboli, di significati che non si rivelano pienamente. Ha indagato con il suo sguardo in tutte le dimensioni per aprire lo spettro dell’immaginazione, determinando una consapevolezza inaspettata, emotiva e intellettuale che non si riesce a padroneggiare completamente ma verso la quale ci si sente continuamente attratti.

L’opera d’arte contemporanea, non per sua negligenza ma in conseguenza dell’evoluzione del pensiero scientifico che ci ha fornito una visione della realtà diversa da come appare, e dei conseguenti profondi mutamenti - tecnologici e mediatici - intervenuti negli ultimi 150 anni, ha però smesso di essere un racconto, non dice più “nulla” e l’artista ha smesso di essere un artefice di bellezza.

In questo scenario ritengo che fare ancora quadri abbia un senso solo se si ha l’ambizione visionaria di contrastare le idee preconcette, svelando nuovi aspetti del reale e tentando di proporre nuovi e più efficaci modelli di convivenza, rifiutando modelli espressivi pietrificati, autoreferenziali o, peggio, retorici esercizi decorativi.

Si deve essere consapevoli però che l’origine della bellezza, oggi, è nella comprensione e quindi che è necessario entrare in contatto con lo spettatore attivando una comunicazione non verbale e, magari, riuscire a produrre fertili scintille di pensiero ricorrendo al paradosso. Si deve pensare il mondo sempre meno in termini di cose e sempre più in termini di processi.

E’ per questo motivo che canalizzo la mia ricerca verso percorsi che consentano di andare oltre l’enfatizzazione dell’espressività individuale per rendere l’artefatto un “luogo” di partecipazione e discussione, una sorta di “corpo in movimento”.

La mia attività, pur modulando linguaggi ereditati, è orientata al cambiamento ma senza certezze.

In particolare - adottando una sorta di procedimento retorico - affianco ai miei quadri titoli, non sterili didascalie, a cui affido il compito di permettere al vedere di riflettere su ciò che vede e diventare un’esperienza. Sollecito una forma di ricognizione su un “oggetto non simbolico”,
il quadro, non per approdare a un riconoscimento ma per immaginare come abitare il nostro tempo e lo spazio diversamente.

Impiego, a tale scopo, anche i nodi - oggetti complessi e tattili, perché, sotto la suggestione del titolo, pongano una serie di domande a colui che guarda divenendo, in virtù della loro natura ambigua, una sorta di grembo fecondo da cui possa nascere l’istanza di conoscersi, di comprendere la propria ragione di essere, il proprio principio e la propria fine e in che modo porsi in relazione con gli altri.

Un metodo questo, forse “matto e disperatissimo”, per tentare di diradare la nebbia dell’indifferenza che avvolge le coscienze spente, stimolandole a interrogarsi sulle cause e sulle conseguenze dell’attuale crisi di ideali.