La facoltà di veggenza
“Di più è diverso” Philip Warren Anderson (Premio Nobel)
Ritengo che un quadro debba essere capace di veicolare messaggi, toccare i sensi e poter esplorare ciò che influenza la coscienza che riempie la vita degli esseri umani, quindi non oggetti ma concetti che offrano della realtà sensibile la sua percezione più autentica.
Pertanto, ho pensato le opere, seppur prive di racconto, come “macchine” che, attraverso l’equivoco e il paradosso, ponessero in atto una strategia comunicativa per dare compimento all’urgenza di riflettere sulle criticità del mondo contemporaneo. Tutto questo Impegnandomi nel difficile tentativo di allontanarmi dall’influenza dei maestri nella convinzione che i quadri siano un luogo di sperimentazione per ampliare i confini espressivi e non per il gusto di piacere.
Per tale scopo ho adottato un linguaggio che combinasse il “sentimento” e il “respiro” della materia, interprete dello spirito del tempo, con i contributi del titolo, evocativo delle inquietudini e delle problematiche attuali, e del nodo, indispensabile meccanismo di reazione e stati d’animo.
La storia dell’uomo non si risolve solo in singoli percorsi lineari, ma spesso in grovigli discontinui, nodi. La vita infatti che Borges definisce, nella raccolta di racconti Finzioni, “arte dell’intreccio”, si tesse proprio inconsapevolmente e imprevedibilmente in modo oscuro nell’intreccio di spazio e tempo, di amore e morte, in cui la coscienza ricerca a fatica un ordine, un senso. L’intreccio è una forma retorica della complessità ed è una sorta di allegoria dell’umanità e della realtà che la circonda.
Nelle mie opere il nodo è l’elemento fondante della geometria, della luce e del ritmo della superficie pittorica che dà corpo a forme organizzate seppur refrattarie ad ogni classificazione. In più la qualità cinetica del nodo determina una virtuale identificazione sensoriale in chi osserva attivandone il sistema psicomotorio nella ripetizione istintiva del gesto che lo ha generato.
Ho giustapposto, inoltre, ad ogni opera un titolo perché, in virtù dell’associazione apparentemente impropria con la raffigurazione, fosse di ausilio all’immaginazione nel trovare un’eloquenza delle immagini, mai però definitiva, al tempo stesso determinata e provvisoria, fatta di cancellazioni e sovrapposizioni e in continua mutazione. Del resto bisogna riconoscere l’impossibilità di disfarsi della parola osservando il mondo. La parola può “descrivere” un’immagine che non esiste e che a sua volta può essere generata dalle parole, determinando un territorio di confine, di reciproca ibridazione.
Il titolo costituisce una sorta di inciampo che determina un artificiale e momentaneo sfocamento della percezione obbligando lo sguardo a considerare anche altri particolari punti di vista per scoprire l’inaspettata energia cristallizzata nella fisicità dell’opera.
Il titolo si correla alla facoltà di veggenza dell‘osservatore che, proponendosi come un assistente, conduce oltre il convenzionale verso un diverso livello di consapevolezza, offrendo spunti capaci di far emergere una possibilità di senso, ma non un significato ultimo e stabilito.
D'altra parte l’arricchimento di un’esperienza visiva con una non visiva può rendere duttile la percezione trasformando l’indeterminato in determinato e disvelando l’impensato, valicando i limiti di una indagine riduzionista. Ne dovrebbe conseguire una fruizione che, integrando la ricognizione con la comprensione, seppur questa generica e mai definitiva, al tempo stesso chiara e ingannevole, faccia apparire l’opera come l’esito di un processo materiale e culturale che ha trasformato l’irrazionale in fantasia creatrice. |