Indietro Guglielmo Gigliotti

Eredità e originalità di un polimaterico dei nostri giorni

Gualtiero Redivo fa quadri, ma non dipinge. E se lo fa, la pittura dipinta occupa una parte minoritaria del processo costitutivo dell’opera. Il resto è pittura "trovata". Pittorico, e pittoricistico, è infatti l’effetto del trattamento di materie "altre", non appartenenti alla tradizione della pittura in senso storico: stoffe, stracci, pelli, carta da pacchi, nastro adesivo, ovatta, e quant'altro possa trovare sottomano, che sia capace di indurre alla divagazione creativa di una poesia "povera" ma pregnante.

Sono materiali domestici, materiali di risulta, destinati allo scarto, un mondo di essenze secondarie, cui la distrazione del vivere quotidiano non attribuisce valore in sé, al di là del loro uso funzionale.

Troppo pulito appare tuttavia all’occhio indagatore dell’artista il ciclo di produzione-consumo-consunzione. Troppo perfetto, per essere credibile. E infatti è anche un po’ bugiardo. Quanto viene scartato, non ha più nulla da dirci? Le cose, terminate il loro circuito d’utilità, muoiono veramente?

L’arte è forse nata proprio per suggerire altri circuiti da quelli indotti dalle convenzioni, altre percezioni del reale, più problematiche, e forse più vere. E l’arte di Redivo nasce forse per evidenziare le potenzialità di un gesto semplice, assoluto, radicale: la immissione in altro circuito di quanto era destinato al deperimento e all’oblio. Il circuito dell’immaginazione, della lettura in profondità, dell’interrogarsi senza sosta, al fine di alimentare col dubbio certezze innaturalmente solide.

Il recupero, la riattivazione dei materiali di scarto, corrisponde ad una riemersione del rimosso sociale e culturale, ad una disvelazione del suo valore nascosto, che è tesoro che non brilla, ma che esiste.

E’ questa esistenza minimale, silente, che il gesto di Redivo porta alla luce, conferendo nobiltà ad una realtà figlia di un dio minore. La materia, infatti, accuratamente manipolata, disposta, distesa, piegata, incollata, pressata, si fa colore, diviene forma, si organizza in composizione, discorso, arte. E’ materia-colore, materia-forma, materia-quadro. Materia e materiali che iniziano a raccontare la loro storia segreta, fatta di grinze e rugosità, lacerazioni e densità. La stessa piega si fa segno che la materia porta in grembo, segno rivelato nella/dalla materia stessa, segno, anch’esso, trovato.

Quello di Redivo è un giocare con le apparenze, manomettendone le più superficiali sembianze, per dire che il re è nudo, ovvero che la realtà, quella che abbiamo sotto gli occhi, conosce vari livelli, solo a volergli dare ascolto. Ascolto visivo, sì, ma anche tattile. E’ frequente, infatti, in Redivo, che una stoffa, magari di tappezzeria, sia piegata più volte, fino a produrre un lieve aggetto dal piano, evocando suggestioni tattili di morbidezza. Sono quelle che lui chiama le "superfici molli", perché anche l’occhio vuole la sua parte di sofficità.

Ma che siano molli o dure, è chiaro che quello di Redivo è comunque un discorso che procede per disposizione e composizione di superfici. Tanto poveri ed elementari i suoi materiali, tanto solenne è la loro spaziatura sul piano e araldica la loro scansione impaginativa. C’è un procedere a ritmo lento, quasi sospeso, che modula per campiture espanse di materia-colore l’intero impianto costruttivo dell’opera. Un procedere tuttavia mai scontato, che gioca con l’imprevisto, sorprendendo per primo l’artista che si fa autore-spettatore di tensioni lineari ed essenze formali scaturite d’incanto.

L’opera nasce come volontà poetica, ma una volta attivata con primi elementari gesti, partendo magari da un particolare, essa continua a crescere su se stessa, come un organismo capace di auto-organizzarsi in pieno e libero dialogo con l’artista, che riceve e dà, ascolta e dice. L’opera cresce con l’artista, mai grazie all’artista. Per quanto pensata, voluta, cercata, nel suo fenomenizzarsi procedurale convergono, come un tutt’uno indissolubile, istanze di progettualità e casualità, di coscienza e mistero, di ritmi imposti e altri trovati. Sarà l’insieme finale a rivelare l’autenticità di questo percorso, la sua natura composta di armoniosi squilibri, asimmetriche geometrie, decentrate polarità. E’ lo stesso Redivo, d’altronde, a dirci che "l’atto creativo e dissimmetrico". La simmetria, infatti, è mera astrazione, inutile utopia, falso problema. La perfezione è noiosa. Vera e vitale è la perfezione dell’imperfetto, il suo cristallizzarsi per piani obliqui, curve che s’interrompono, forme senza formalismi, che si impongono come un enigma.

L’enigma. E’ forse una parola chiave dell’arte e dell’artisticità. Perché un’opera trova il suo punto di realizzazione finale nel momento in cui raggiunge il giusto equilibrio di disponibilità a una nuova, ulteriore continuazione. Un’opera, in altri termini, non finisce, ma si tende come un arco pronto a scagliare un’altra freccia. Il vertice di questa tensione è ciò che procura la piacevolezze estetica, e non solo, del cosiddetto "bello". Un momento assoluto, in sé eterno, eppure al contempo in divenire: una contraddizione piena di magia, che turba chi crede acriticamente alla lineare logicità delle cose e della vita.

Fatto sta che tale continuità, tale flusso energetico, che procede di opera in opera, raccontando la sua storia nel momento in cui la realizza, non conosce soluzione di continuità neanche tra artista e artista, attraversa le generazioni, azzera d’un sol colpo gli spazi geografici.

Si spiega anche così il problema della continuità storica degli stili, delle poetiche e delle modalità esecutive, che Gualtiero Redivo sente fortemente, e con cui si confronta con una non comune consapevolezza intellettuale.

Scrive a riguardo l’artista: "Difficile è l’accesso all’esclusivo Circolo degli Innovativi, più facile è ritrovarsi nella schiera dei Continuisti." Il suo riferimento è a Burri e ad Afro, nei confronti dei quali Redivo, non solo non nasconde, ma mette in grande rilievo gli evidenti debiti ispirativi.

Poi c’è il Caravaggio, pure molto amato da Redivo, che, forse più sotterraneamente, ma non meno incisivamente, guida l’artista romano nella calibratura netta, drammatica delle contrapposizioni di campiture chiare e scure, secondo modalità di determinazione architettonica dell’immagine per entità luministiche, che rende grande, al di là dei secoli, la pittura dell’artista seicentesco.

Redivo si autocolloca nella schiera dei "giunti in ritardo", degli obbligati al "furto creativo" e all’esplorazione di "altre forme di un linguaggio ereditato". Redivo è forse invece solo un figlio del suo tempo. Un tempo che ha visto, nell’intero secolo passato, un susseguirsi rapidissimo di novità linguistiche, la cosiddetta stagione delle avanguardie e neoavanguardie, archivio lunghissimo di "ismi". Un secolo tra i più fervidi e fertili della storia dell’arte, che propone nel suo insieme un ventaglio talmente ampio di soluzioni di approccio alla problematica artistica e linguistica, da indurre oggi alla sosta, alla riflessione e alla rielaborazione. E’ vero, ci sono gli innovatori, e Burri è tra di essi uno dei grandi, ma l’innovatore è chi disserra porte che verranno attraversate pure da altri. L’innovatore indica una strada, ma nel momento in cui lo fa non appartiene più a lui solo, ma a chi la vuole percorrere.

Il mondo dell’arte, oggi, invece è affetto di "novismo". Tutti cercano il nuovo, e ciascuno vuole sentirsi originale. E non si rendono conto che nuovo oggi forse può essere solo la rimeditazione attualizzante di quanto fatto, un suo radicamento più approfondito nel tessuto culturale, mediante espansione e continuazione di idee e soluzioni, che necessitano di ulteriori filtri e rielaborazioni. La scoperta di un territorio prima ignoto non garantisce un prolungato valore in sé, se tale territorio viene subitamente abbandonato. La civiltà del pensiero e dell’arte si fonda sullo scavo interminabile nell’humus di territori, sempre nuovamente (ri)scoperti. E visto che le parole hanno un senso, anch’esso necessitante sempre di nuove riscoperte, c’è da dire che, se il termine "originale" trova la sua radice etimologica in "origine", un’originalità matura d’oggi non potrà non sussistere anche nell’atto di chi all’origine del proprio fare attinge, manifestando l’orgoglio di una paternità rivelata.

 

(14/03/2012) E-mail di conferma per la ricezione della monografia

Caro Gualtiero, mi ha fatto molto piacere ricevere oggi il tuo catalogo, per due motivi: perché è un catalogo fatto benissimo e perché ho avuto modo di "scoprire" la tua produzione ultima, tutta "annodata" attorno ai temi fondamentali dell'arte: plastica, materia, racconto, simbolo, dramma, sogno e presentificato mistero. Cucini con sempre maggiore padronanza gli ingredienti dell'arte che interroga se stessa sui grandi perché. Torno quindi dopo oltre dieci anni a godere di quello che fai, te ne sono grato ...