Intervista a Gualtiero Redivo di Gianluca Roselli (catalogo)
Perché una mostra dal titolo “Formule di pensiero” dove opere d’arte e parole si mescolano e il titolo interagisce con l’opera stessa? L’arte è una qualità intrinseca dell’intelligenza umana, ma affinché emerga per produrre senso, occorre che diventi linguaggio. Da pura informazione deve diventare comunicazione. Allora ho pensato a una serie di titoli che vanno a contaminare l’opera, in quanto priva di simbolismo delle immagini, frasi come intervento intellettuale che costruiscono una sorta di mappa per guidare il fruitore in un cammino senza sentiero e decidere fra diverse incertezze. Le parole diventano degli input per far riflettere su ciò che si guarda. Così facendo, il titolo diventa parte integrante dell’opera: qualcosa che vi si innesta all’interno di un percorso di storicizzazione dell’opera stessa. Dico questo pur non disconoscendo che l’artista non può prevedere, né tanto meno determinare a pieno, l’esperienza estetica: questa infatti è aperta, è un processo non strutturabile di interazione comunicativa nella quale al destinatario (il fruitore) compete una responsabilità interpretativa inalienabile. In queste opere lei affronta temi anche di stretta attualità, addirittura di cronaca, come il testamento biologico e la crisi economica. Crede che l’arte debba essere sempre legata alla realtà del mondo che ci circonda? L’arte è sì l’apparenza che nasce dal lato nascosto e enigmatico del mondo, ma risente sempre del periodo in cui si manifesta, vive nel contesto in cui opera, non esiste arte al di fuori del contesto. Per questa mostra, come in passato, sono stato influenzato da grandi temi della società contemporanea. Il tema del testamento biologico, o le paure generate dal mondo mediatico per distrarci da qualcos’altro, o il problema dei giovani condannati a un’esistenza precaria. La realtà influenza la vita di un artista che poi cerca di reinterpretarla attraverso l’opera. E proprio nella nostra epoca penso che l’arte debba avere una connotazione di carattere sociale: l’artista non deve vivere in una torre d’avorio, ma deve confrontarsi con i problemi del mondo e, soprattutto, comunicare alle persone. Lei insiste molto sul tema dei diritti civili e della riduzione delle ingiustizie sociali… Sì, perché credo che l’economia e la politica debbano essere al servizio della collettività e non fini a se stesse. Ma soprattutto oggi bisognerebbe ritrovare il senso di appartenenza a una comunità e avere obiettivi comuni: perché l’uomo è padrone del proprio destino e può guidarlo solo come parte di una collettività e non come singolo individuo. Nelle sue opere usa spesso i nodi. E l’installazione simbolo di questa mostra ha per titolo “Il mangiatore di nodi”. Che cosa significa? Per me il nodo non ha un carattere mistico o occulto, ma è simbolo della complessità della vita. Noi passiamo la nostra esistenza a cercare di comprendere i nodi in cui ci imbattiamo lungo il nostro cammino di vita per tentare di scioglierli. La complessità che ci troviamo ad affrontare è la conseguenza del mondo che noi stessi abbiamo generato, essa non è una caratteristica intrinseca della realtà ma deriva dalla relazione tra gli obiettivi, i mezzi e i modi che costruiamo per raggiungere questi obiettivi. Il disincanto, conseguente la fine del mito e del sacro, la tecnologia non più strumento e il denaro generatore di tutti i valori fanno emergere una complessità che per i più diventa intollerabile e satura di sventure. L’angoscia generata spesso viene poi amplificata dal fatuo e inconcludente compiacimento parolaio dei senza progetto. Il mangiatore di nodi è un paladino del pensiero sbrigativo che vuol far credere che la realtà è accattivante e semplice al solo fine di creare quel consenso che permette di regolare a vantaggio di pochi la “vita degli altri”, perpetuando la pietrificazione delle disuguaglianze. Ciò comporta che non è più il merito che discrimina l’elite ma il clientelismo, la via dinastica e cortigiana, trascurando le capacità. E in questo modo si nega il futuro di un popolo, si rende un paese immobile confinandolo inesorabilmente nella mediocrità. La realtà, invece, è complessa. Ma questa circostanza non va drammatizzata. In ogni caso bisogna ricercare un ordine nella realtà, vale a dire nel mezzo caotico, ostile, immenso in cui siamo gettati dalla nascita e fuori dal quale ci porta la morte senza tante cerimonie. La complessità della vita viene indagata attraverso tre strade: la religione, che ignora i nodi; la scienza, che cerca di scioglierli; l’arte, che invece li utilizza per dare un’espressione, un valore, un senso alla nostra esistenza. Che materiali ha usato per queste opere? Ho usato i prodotti poveri che sempre ricorrono nella mia arte: cartoni pressati di tipo industriale ricoperti da stoffe o nastro adesivo su cui vengono applicati colori acrilici, materiali di recupero e creme per lucidare le scarpe. Sono convinto che la minimizzazione della quantità di strumenti di lavoro metta l’artista nella condizione di amplificare, con effetto leva, l’esplorazione di nuove opportunità espressive e realizzative. Qual è secondo lei la funzione dell’arte nella nostra società? L’arte non è qualcosa di accessorio, ma un fattore culturale che produce pensiero. Quindi dovrebbe occupare un posto centrale. Per comprendere la realtà che lo circonda l’uomo la deve reinventare: l’arte permette questa operazione secondo un diverso linguaggio. Questo può aiutarci a orientarci nel mondo e a dare un senso alle cose e al susseguirsi degli eventi. Secondo lei per ammirare un’opera d’arte c’è bisogno di preparazione? Sono contrario al cosiddetto approccio emotivo, il fruitore non è un orecchiante, ma deve avere una sensibilità collaudata per indagare le qualità formali di un’opera. Come tutte le cose che fanno riflettere, anche di fronte all’arte c’è bisogno di preparazione, di conoscenza e frequentazione, di un retroterra culturale che va “innaffiato” nel corso degli anni consentendo a chi guarda di interpretare il sistema di stimolazioni che l’artista ha ricostruito in artefatto oggettivo.
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Articolo apparso su Libero - edizione Roma del 19 febbraio 2009
Le opere di Redivo Alla Galleria SMAC
VERNISSAGE. Corde, stracci, nodi, intrecco. I quadri di Redivo giocano con le dimensioni, escono dalla cornice e coinvolgono lo spettatore in un cammino artistico e concettuale caratteristico dell'arte polimaterica. Oggi, alle ore 18.30 alla galleria SMAC a Roma, si inaugura la mostra "Formule di pensiero", con le ultime opere di un artista del panorama romano. Redivo gioca con le forme e i colori e, attraverso materiali di recupero, dà una visione del mondo prendendo spunto da temi di stretta attualità, dove l'opera si fonde con le parole. E allora ecco "Il mangiatore di nodi", l'installazione più rappresentativa dell'esposizione, ovvero il grande semplificatore, colui che banalizza la complessità della vita. |