Testo critico sul
catalogo della mostra “La macchina dei nodi”
“Contaminazioni nodi
Redivo”
Il nostro tempo è come un grande enigma, sfuggente, frutto di
tanti segmenti formali, fortemente individuali, in preda ad una
forte radicalità antropologica, con una vistosa attenzione alla
trasformazione, all’originalità, attuata con un incessante
percorso, tortuoso e intrigante, di scivolamenti e
trasgressioni, tesa alla non appartenenza, anche quando
(come nel caso delle arti visive, sia tradizionali che
sperimentali) sono collocabili all’interno di una comprensibile
griglia interpretativa per quanto sfuggente, in continua
metamorfosi.
Sono veramente pochi, proprio pochi, disponibili a cedere un
poco di sé, alla propria originalità, per metterla in comune con
gli altri e rompere il muro dell’isolamento, dell’individualismo
esasperato, del pur necessario narcisismo, per creare una rete
leggendaria, fatta di invenzioni formali e suggestioni gestuali,
in cui ciascuno possa leggere un po’ più di sé nel mondo degli
altri e del mondo nel proprio universo interiore.
Si tratta di un atteggiamento diffuso, contaminante, in cui le
negazioni e le affermazioni rispetto alla nomenclatura della
tradizione e alla enigmaticità della sperimentazione, che porta
verso la indicibilità, nella dubbiosità ricorrente, delle opere
creative, che nella loro materialità sono più avanzate del
linguaggio verbale, in quanto non hanno le responsabilità
comunicative di quest’ultimo, potendosi depositare
totalmente sul versante espressivo, come presa d’atto della
visibilità, apertura verso il sublime, come complessa
essenzialità di cui prendere atto, sia visivamente che nel
complesso delle valenze sensoriali.
Tutto ciò porta a una grande schizofrenia, ad uno spreco di
energia, in attività ondeggianti di nascondimento e di
svelamento, tanto da far dire che la pittura del nostro tempo, i
pittori e gli artisti del nostro tempo, hanno perso ogni senso
del tragico e del drammatico, configurandosi nel momento ludico
come una sorta di corazza esteriore, con cui separarsi dagli
altri, con una sorta di labirinto interiore, con cui separarsi
da se stessi.
Ma, in flagranza di eventi la cui matrice e la cui corporalità
sono necessariamente ascrivibili in un dubbio in progress,
io non sono sicuro che non siano avvenuti cambiamenti tellurici,
strutturali, nel modo di cogliere e vivere i sentimenti e le
emozioni, piuttosto sono cambiati i modi di rappresentarli, di
darne conto, in maniera verbale, narrativa o poetica e
soprattutto s’è modificato il modo di rappresentarli, di farne
factura materiale, come conglomerato di solidità e
liquidità, tangibile come effetto plastico della fantasmaticità
pittorica, percepibile, come visibilità dell’invisibile.
Gualtiero Redivo, con la sua saturnalità laboratoriale, fatta di
imprevedibili intrecci compositivi, di confronto risolutivo, con
frammenti umorali della vita e della sua continua scansione, in
termini di azione e reazione, a ciclo continuo, senza
intermissione, come se il suo super io, inflessibile gli
imponesse (ma, alla fine è l’intreccio emozionale, umorale e
psicologico a scegliere, con determinazione poetica e
architetturale), nella lunga scia della transitività ondeggiante
che sa di Burri, come carnalità della composizione, che sa di
Fontana, come spazialità sublime, che sa di Manzoni, misturalita’
provocatoria e irritante, ma anche della determinazione
elaborativa, che parte dal dadaismo e giunge fino a territori
nomadi dove oggi vigono personaggi come Anish Kapoor, come
Hermann Nitsch, come Damien Hirst.
Lo so, di aprire un taglio sporco, seghettato di concavità e
convessità, non lineare nella sua esplicazione poetica e
concettuale, dove non tutti i buoni stanno con i buoni
e non tutti i cattivi stanno con i cattivi, perché
nel tempo della nostra vita spirituale e biologica non ci sono
separazioni nette e tutto si mescola inesorabilmente, anche
perché il tragico e il drammatico hanno perduto ogni
connotazione romantica, ogni alone di leggenda, disseminandosi
nella selva della visibilità, dell’eclatante a tutti i costi,
per un attimo di video, di giornale e poi subito lo spegnimento
di ogni successo, per l’evento successivo, per la cestinatura,
per la discarica, nel regno totalitario del rifiuto.
A questo punto, interviene (nel senso che può intervenire)
nell’ambito di un’intrigata querelle, tra il caso e la
necessità, Gualtiero Redivo che fa da raccoglitore emergenziale,
dell’oggetto non più oggetto, della cosa non più cosa, per
proporli ad un nuovo caso, ad una nuova necessità, come dire, a
tanti, ognuno per sé, senza fare tante premesse teoriche,
senza farsi tante illusioni, con la forza di volere entrare in
altri tempi e in altri luoghi, con la forza del quid, che si
viene a determinare, nella lotta del fare contro il
non fare, nella luce contro l’ombra.
Consiste, proprio in questo modo d’essere e di fare il nucleo di
forza, di originalità, di questi lavori, che nella loro
genealogia, devono tanto a tanti, come cultura e antropologia di
linguaggio, come tipologia espressiva, come genere emozionale,
come anarchia stilistica, nella consapevolezza, che l’opera,
questo tipo di opera, come concerto dodecafonico, di una, cento,
mille opere, che si somigliano, quel poco o quel tanto, con cui
si possono assimilare gli stati d’animo: ecco possiamo dire che
si tratta di accumulazione di materiali metamorfici, resi in
termini esistenziali e quasi mistici di una personale vocazione
alla pittoricità, di una sconcertante individualità, che non si
piega alle virtù rovesciate della moda ed ai capricci della
volubilità stagionale, che non deve niente a nessuno, se non a
se stesso e al proprio infaticabile specchio.
In questo senso, in questo panopticon, della
verisimiglianza rovesciata, disarticolata, della sconcertante
fisicità visuale, si viene ad esprimere, un vero e proprio
spirito del tempo, del secolo breve, appena passato e delle
enigmatiche ore del presente, dell’attimo che fugge e scalfisce
ogni residua verginità, segnando un vero spartiacque, tra quanti
in modo diverso vivono nello stesso tempo, appropriandosi
ciascuno, di un punto di vista, fatto di tanta purezza, ma anche
di tanta misturalità che viene dall’infinita passione del fare,
in termini di un erotismo sublimato ed effusivamente metafisico.
Avviene così, che per ognuno di noi, l’artista, mezzo mago e
mezzo sacerdote, immerso nel proprio io avvolgente e
labirintico, ci metta una parte del proprio segreto, della
propria intimità, inerente alla propria sensibilità personale,
il proprio modo di sentire e di vedere, per farlo sentire e
vedere a noi.
Un grande gioco, elaborato e raffinato, in fin dei conti, fatto
di un complicato, narcisistico, incrociarsi di specchi opachi,
che sono le fantasiose anarchie delle valenze compositive, del
farsi e disfarsi dei linguaggi e di quid, che si
propongono all’assillo del voler dire senza dire, concentrandosi
sull’espressione, come spontaneità, dell’apparenza sottratta ai
codici orizzontalmente e verticalmente ordinati.
Corde, che non sono più corde, ma intrecci e armonie, plastiche
che non sono più chimica, ma alchimia, escrescenze che non sono
esuberanze ma tattilità, implosioni che sono arricchimenti
stratificati, tramature pittoriche, come intensità visuali e
fantastiche, collages, come misture tecniche della diversità,
per affermare un superamento sublime della figuratività,
fatta in modo ritmico, poetico, in modo che niente si possa
presentare immediatamente, con nudità povera, perché su ogni
momento, aleggia uno spavaldo spirito barocco, che invoca il
nulla, ma aspira superbamente al tutto, come congresso
dell’anacronismo dell’arte e della sua suprema contemporaneità.
Su questo punto, vengono a convergere i momenti di un disordine,
che non entra mai in crisi, perche con essa vive, nell’universo
della ripetizione, uno scambio simbolico, di simulazione e
dissimulazione, in cui l’artista dà le proprie carte
segnaletiche informi, “trasformistiche”, per partecipare (e
possibilmente) vincere la scommessa dell’incomunicabilità, col
muro invisibile e corposo (vera forza del paradosso) che si erge
intorno a tutti come specie e intorno ad ognuno, come individuo,
maxime se artista, che vive la speciale condizione della
lucida follia, del cammino da compiere nell’immobilità fra prosa
e poesia, tra tormento e estasi, in un altalenìo continuo.
Così il contesto, umanamente ricco e complicato di Gualtiero
Redivo, fatto di prorompente energia, covata “follemente” per
tutta una stagione all’inferno (per dirla con Rimbaud), finisce
per essere una prova di pittura, un modo d’andare oltre
l’ordinario, che compare e scompare, verso la fissazione
irrevocabile di immagini che vanno oltre le parole, in una
disseminatio, qui e altrove.
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